Quando mangiamo prendiamo il sole. In fondo cos’è il cibo se non sole trasformato con la fotosintesi in pasta e carne? E non è un caso se la quantità di sole che ingoiamo la misuriamo in calorie.
Appunto. Ma con la guerra prendere il sole ci sta costando tantissimo. Molto di più di quanto già non ci costasse. Sempre di più, perché da qualche decennio abbiamo messo all’ombra la nostra mente per correre dietro a «membri delle élite che hanno abbastanza denaro da non doversi preoccupare di come procurarsi il prossimo pasto». Così stigmatizzava i benpensanti del no alla genetica in agricoltura, l’agronomo americano Norman Borlaug, premio Nobel per la pace per aver sganciato sulla fame la bomba della Rivoluzione verde: quel meraviglioso processo di scienza e coscienza, avviato con l’ibridazione del grano per aumentare la resa e respingere i parassiti.
In questi giorni stanno venendo al pettine i nodi e alla tasca gli oneri del “vandanashivismo” (riferimento a Vandana Shiva è ricercato), un oscuramento della ragione, della prova scientifica, della conversione ecologica e della pace. E vediamo perché. La rinuncia ideologica del nostro Paese alla genetica in agricoltura ha generato una notevole dipendenza dalle importazioni. Negli ultimi giorni di guerra, poi, tale soggezione ha causato sproporzionate impennate del prezzo.
Ecco l’impressionante andamento negli ultimi cinque anni: 176 dollari a tonnellata nel 2016, 178 nel 2017, 203 nel 2018, 211 nel 2019, 227 nel 2020, 281 nel 2021, 322 nelle prime settimane del 2022 e 400-500 dollari negli ultimi giorni. Inoltre, sempre per ideologia, nel settore dei mangimi facciamo la cosa più folle che si possa fare: importiamo ciò che vietiamo di coltivare, cioè l’85% di soia e mais geneticamente modificati (ogm), per alimentare il nostro bestiame e produrre le merci dei nostri marchi più celebrati e tutelati (parmigiano, prosciutto crudo, ecc.). Migliaia di chilometri attorno al mondo, a bordo di navi o carghi a gasolio, a causa della cecità dei sostenitori del chilometro zero. Non c’è nulla da ridere, è proprio così.
Eppure basterebbe molto poco. Basterebbe accettare e favorire l’innovazione genetica in agricoltura per aumentare la resa e ridurre il consumo di pesticidi, energia e acqua. Più o meno ciò che in agricoltura si è sempre fatto. Secoli e secoli a studiare le piante e i terreni, modificandoli e adattandoli affinché le une potessero meglio accoppiarsi con gli altri. Modifiche di semi per aumentare le varietà e pure la resistenza al gelo e ai parassiti; migliaia di prove per migliorare aspetto e gusto di piante e frutti. La mela, la fragola, l’albicocca e il pomodoro, non ci sono state date così come le vediamo.
È stato il lavoro e l’ingegno dell’uomo a dare alla natura un senso più concreto, saporito e meno violento. E anche il bestiame ha migliorato i suoi rendimenti e la qualità delle carni, con razze incrociate e alimentazione ben calibrate. Si pensi che Borlaug, eliminando un gene, rese lo stelo del grano più nano così da occupare meno spazio e sopportare più chicchi.
L’innovazione in agricoltura attraverso la genetica e la digitalizzazione, per avere dalle piante il massimo della resa e dare ai campi ciò che serve nelle misure più proporzionate, è la ricetta. E un programma in grado di ridurre la dipendenza dell’Italia dall’estero, aumentare la prosperità, contenere l’uso dei pesticidi, risparmiare acqua e energia.
E tutto questo sfamando sempre più persone con la coltivazione degli stessi campi e perciò evitando di smantellare boschi per aumentare la superficie coltivabile. Sino agli anni novanta del secolo scorso la genetica delle piante in Italia era un’eccellenza. Poi si fece buio sull’ingegno umano e sulla prova scientifica per non fare ombra sulle nuove ideologie. L’uso della mente e la scienza, infatti, sono amici dei programmi e nemici delle ideologie, perché aiutano a pensare la realtà per com’è e non per come altri la vorrebbero piegata al proprio disegno di potere. L’innovazione genetica in agricoltura mette in luce il genio umano e in ombra le ideologie; mette al sole i nostri campi e le nostre piante per farci mangiare il sole, abbronzandoci ma senza scottarci.
Articolo pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia del 29 marzo 2022